Quando eravamo prede – Carlo D’Amicis

prede

Se chiudo gli occhi vedo ancora i ratti, a centinaia. Mostruosi con sei zampe e un occhio solo, capaci di divorare un uomo intero in pochi secondi. Se chiudo gli occhi sento ancora l’odore delle bestie e ritorno ad annusare il bosco: nettare vitale se popolato di animali, apocalittico e glaciale in loro assenza.

È questo, credo, ciò che ci ha chiesto di fare Carlo D’Amicis con “Quando eravamo prede“, il suo ultimo romanzo per minimumfax.

Ho aperto questo libro animato da una grande aspettativa – forse troppa – e l’ho letto tutto in apnea. A stregarmi era stata la presentazione, nella quale si legge “…Ma che succede quando per puro caso la prima briciola di civiltà cade tra gli alberi di questa foresta? Cosa accade quando i suoi abitanti scoprono la religione, il diritto, la proprietà privata e una cosa in apparenza vantaggiosa come la pietà? Ecco che un equilibrio inconsapevolmente perfetto si ribalta d’improvviso rivelando un mondo vecchio, triste, malato, a rischio addirittura di estinzione“.

Lo stesso autore espande il concetto in questa intervista dalla quale riporto alcuni passi :

Anche se la vicenda di “Quando eravamo prede” è ambientata in un tempo e in un luogo indefiniti, il libro scaturisce dal nostro ravvicinato quotidiano. Ogni comportamento dell’uomo moderno, infatti, mi sembra denunciare una perdita di naturalità. Non abbiamo più una sapienza naturale che ci guidi, ma nello stesso tempo ci ritroviamo spesso sopraffatti da reazioni istintive, che ci ricordano impietosamente i limiti della nostra evoluzione culturale. Mai come in questi anni, mi pare, l’umanità vive in bilico tra cielo e fango, tra un luminoso progresso che ci innalza allo stato di semidei e un oscurantismo che ci sprofonda verso meccanismi primordiali: il nostro prossimo può essere uno strumento di elevazione morale e spirituale oppure – semplicemente, ferocemente – l’altro, il diverso da eliminare. E come i recenti casi di bioetica hanno rivelato, è diventato difficile perfino definire cosa è naturale e cosa è umano.    

Il mio intento è quello di portare il lettore a riflettere su questa lacerante dialettica, senza fare sconti alla nostra presunta supremazia sul mondo animale e senza concessioni al mito nostalgico del buon selvaggio. Il romanzo è volutamente ambiguo, fin nell’identità dei cacciatori che animano il bosco: uomini, certo, ma forse anche bestie (quando avranno la possibilità di riascoltare le loro voci, sentiranno solo versi animaleschi). Hanno una relazione intima con la natura, ma nello stesso tempo già ne subiscono il tradimento; si comportano come se fossero eterni, ma si stanno già estinguendo; ignorano la civiltà, ma subiscono il fascino della tecnica.

Insomma, a ben vedere incarnano molte delle contraddizioni del nostro tempo e del nostro mondo”.

Un mondo metaforico e onirico, a tratti surreale, fantastico e mitologico. È questo il mondo nel quale ci porta l’autore, e si procede con gli occhi chiusi, trattenendo il respiro e voltando le pagine anche quando alcune metafore sembrano forzate, anche quando alcune apparenti incongruenze sembrano acconsentire a un respiro. No. Si continua a leggere e a vagare nel loro bosco, ubriachi della loro birra casereccia.

Quando eravamo prede è un libro che non ti molla, anzi c’è da star attenti, leggendo, a schivare l’irruenza ignorante, animalesca e primordiale di Toro, Alce, della Cagna, di Agnello, Zebra, Ghepardo, Bisonte, Leone, Formica e di tutti gli altri animali che vivono all’interno del Cerchio.

Le idee che l’autore ha affermato di voler comunicare, a tratti sono rimaste impolverate dallo stile fiabesco, seppure in toni pulp, ma forse proprio questo è uno degli elementi che rendono questo libro una sorprendente fiaba mitiologica.

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